23 giugno 2007

Doveri religiosi degli uomini di governo

A tutti i podestà e consoli, giudici e rettori in tutte le parti della terra, e a tutti gli altri ai quali perverrà la presente lettera, frate Francesco, vostro piccolo e spregevole servo nel Signore Iddio, augura salute e pace.
Considerate e guardate che il giorno della morte s'avvicina (Gen. 47, 29).
Vi prego con rispetto, come meglio posso, di badare che, per le vostre cure e le preoccupazioni di questo mondo, non abbiate a dimenticare il Signore e a declinare dai suoi comandamenti, perché tutti coloro, i quali lo dimenticano e declinano dai suoi precetti, sono maledetti (Sal. 118, 21), e saranno da lui dimenticati (Sal. 30, 13).
E quando verrà il giorno della morte, tutte le cose che credevano di possedere, saranno loro tolte (Lc. 8, 18); e quanto più sapienti e po­tenti saranno stati in questo mondo, tanto mag­giori tormenti sosterranno nell'inferno (cfr. Sap. 6, 7).
Perciò fermamente vi consiglio, signori miei, a posporre ogni
altra cura e sollecitudine, ed a ricevere di buon grado il santissimo corpo e il sangue del Signor Nostro Gesù Cristo, in sua santa memoria. Cercate che sia molto onorato il Signore dal popolo che vi è stato affidato, e perciò ogni sera fate ricordare o per mezzo di un messo o con qualche segno al popolo tutto, di rendere lode e grazie al Signore Iddio.
E se non lo farete, sappiate che dovrete renderne ragione davanti al Signore Iddio vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio. Quelli che terranno presso di sé questo scritto e lo osser­veranno, sappiano di essere benedetti dal Si­gnore Iddio.
* SAN FRANCESCO DI ASSISI *Lettera prima ai reggitori dei popoli, in Gli scritti di san Francesco d'Assisi, introduzione e note di mons. Vit­torino Facchinetti O.F.M., testo riveduto e aggiornato da fr. Giacomo Cambell O.F.M., 5' ed., Vita e Pensiero, Mi­lano 1957. no. 205-206.

22 giugno 2007

Natura e limiti delle tasse

Nessun dubbio sussiste sul dovere di ciascun cittadino a sopportare una parte del gravame delle spese pubbliche.
Ma lo Stato, dal canto suo, in quanto incaricato di proteggere e di promuovere il bene comune dei cittadini, ha l'obbligo di non distribuire tra questi che gli oneri necessari e proporzionatamente alle loro risorse.
L'imposta non può quindi divenire mai per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare l'ammanco cagionato da un'amministrazione imprevidente, per favorire un'industria o una branca di commercio a svantaggio di un'altra egualmente utile. Lo Stato dovrà astenersi da qualsiasi spreco del denaro pubblico; esso dovrà prevenire gli abusi e le ingiustizie da parte dei suoi funzionari, nonché l'evasione di coloro che vengono legittimamente colpiti.
Gli Stati moderni sono propensi oggi a moltiplicare i loro interventi e ad assicurare un numero crescente di servizi; essi esercitano un controllo più stretto sull'economia; intervengono maggiormente nella protezione dei lavoratori; inoltre i loro bisogni aumentano nella misura in cui diventano più ampie le loro amministrazioni. Spesso le imposte troppo onerose opprimono l'iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell'industria e del commercio, scoraggiano le buone volontà [...].
Si può dire, in breve, che le dimensioni considerevoli degli Stati moderni esigano una sistemazione accurata della legislazione fiscale, ancora aggravata, su più di un punto, da un empirismo discutibile. Inoltre, è di capitale importanza che i principi morali, giustificanti l'imposta, siano tenuti in debita considerazione, sia dai governanti che dagli amministrati e vengano effettivamente applicati. Si proceda, con criteri sempre più sensibili e più adeguati, all'adattamento dell'imposta alle possibilità reali di ciascuno.
La fiscalità non sarà allora più ritenuta un onere sempre eccessivo e più o meno arbitrario, ma rappresenterà, in uno Stato meglio organizzato e più atto a procurare l'armonioso funzionamento delle varie attività della società, un aspetto, può darsi umile e molto materiale, ma indispensabile della solidarietà civica e dell'apporto di ciascuno al bene generale.
La saggezza dei governanti e l'efficacia di un'amministrazione zelante ed integra, deve dimostrare chiaramente che il sacrificio imposto corrisponde ad un servizio reale e genera i suoi frutti.

* PIO XII *
Allocuzione al Congresso dell'Associazione fiscale internazionale, del 2-10-1956, in La pace interna delle nazioni. Inse­gnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., 2' ed., Edizioni Paoline, Roma 1962, pp. 677-679.

16 giugno 2007

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09 giugno 2007

Castel Sant’Angelo

Non c’è monumento in Roma forse più caratteristico e significativo di Castel Sant’ Angelo. Se il Colosseo, dopo le persecuzioni, rimase infatti come una memoria sacra, quasi al di fuori dei tempi, da quando Aureliano ( 275) trasformò l’antico mausoleo di Adriano in un’imponente fortezza, la vita del Castello fu, per oltre mille anni, al centro della storia tumultuosa di Roma.
La sua funzione, dalla invasione dei goti di Alarico del 410 fino al famigerato « Sacco » del 1527, fu quella di difendere la Città Eterna dei nemici che nei secoli la minacciarono da ogni dove.
Il più lungo assedio che il Castello subì fu ad opera dei goti di Vitige, nel 537, quando i difensori romani, guidati da Belisario, furono costretti a fare a pezzi le statue che ornavano il mausoleo per scaraventarle dagli spalti sui nemici. Dopo un anno di inutili sforzi, Vitige abbandonò il campo e Roma fu salva.
Prossimo alla dimora dei Papi, ed anzi ad essa legato da un lungo braccio di mura, detto il Corridoio, il Castello appare quasi come la mano armata del Pontefice che si protende nella città, la sentinella in armi della cittadella di Pietro, simbolo temporale della supremazia del Papato nei confronti dell’autorità del Campidoglio. Gli storici ricordano come quando il Papa francese Urbano V si decise a lasciare Avignone per tornare nella sede tradizionale di Roma, l’ambasceria romana che il 20 settembre 1367 gli andò incontro a Corneto di Tarquinia dove era appena sbarcato, gli consegnò, in atto di sottomissione, non le chiavi della città, come avrebbe voluto l’antica consuetudine, ma quelle del Castello, su di un piatto d’argento.
Il 27 giugno 852, Papa Leone IV consacrò con una solenne processione quella che sarebbe passata alla storia come « Città leonina ». In questa occasione il Castello fu dedicato all’Angelo. Ma non ad un angelo qualsiasi: a san Michele, l’Angelo per antonomasia, di cui era vivissimo il culto. Era logico del resto che la fortezza, le cui mura possenti si ergevano a difendere il cuore stesso della Chiesa, fosse dedicata a san Michele, l’arcangelo guerriero che della Santa Chiesa è il protettore. Il Castello fu così Castel Sant’Angelo. Un’antica e celebre tradizione ricollega inoltre la venerazione dell’Angelo ad un episodio prodigioso accaduto sotto il pontificato di san Gregorio Magno.
Era l’anno 590. In Roma, già devastata da uno straripamento del Tevere che aveva allagato la città riducendola alla fame, scoppiò una terribile peste inguinaria. Per placare la collera divina, il Papa ordinò una « litania settiforme », cioè una processione generale del clero e della popolazione romana, formata da sette cortei, che confluissero verso la Basilica Vaticana. Mentre la grande moltitudine camminava per la città, la pestilenza arrivò al punto tale di furore che nel breve spazio di un’ora ottanta persone caddero a terra morte. Ma san Gregorio non cessò un attimo di esortare il popolo perché continuasse a pregare e volle che dinanzi al corteo fosse portato il quadro della Vergine piangente dell’Ara Coeli, dipinta dall’evangelista san Luca. Fatto meraviglioso: man mano che l’immagine avanzava, l’aria diventava più sana e limpida al suo passaggio ed i miasmi della peste si dissolvevano, come se non potessero sopportarne la presenza. Si era giunti al ponte che unisce la città al Castello. Improvvisamente, al di sopra della sacra immagine, si udì un coro di angeli che cantavano: « Regina Coeli, laetare, Alleluja - Quia quem meruisti portare, Alleluja - Resurrexit sicut dixit, Alleluja! » a cui san Gregorio rispose: « Ora pro nobis Deum, Alleluja! ».
Nacque così il Regina Coeli, l’antifona con cui nel tempo pasquale la Chiesa saluta Maria Regina per la risurrezione del Salvatore. Dopo il canto gli Angeli si disposero in cerchio intorno al quadro e san Gregorio Magno, alzando gli occhi, vide sulla sommità del Castello un Angelo sterminatore che dopo avere asciugato la spada grondante sangue la riponeva nel fodero, in segno del cessato castigo.
Da allora, in ricordo di quest’apparizione, la Mole Adriana fu conosciuta come Castel Sant’Angelo e nel suo più alto torrione fu in seguito posta la celebre statua di san Michele, l’Angelo sterminatore che abbassando la sua spada sta per riporla nella guaina.
Il grande angelo di bronzo che domina il Castello è stato rimosso (cfr. La Stampa del 20-8-1983) dal suo piedistallo, smontato, imballato in trenta pezzi, e trasferito per lavori di restauro. La notizia ha suscitato inquietudine per chi è abituato a prestare attenzione al linguaggio dei simboli. Finito il restauro, la statua, è di nuovo al suo posto, e nella sua simbolica sede è tornato l’Angelo che custodisce la Chiesa e la città di Roma. Non resta che aumentare le preghiere a san Michele, Protector Catholicae Ecclesiae, Exterminator Daemonum, Fortitudo nostra, perché in queste ore difficili della storia continui a sorreggere con il suo aiuto la Santa Chiesa ed i cattolici fedeli.